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Paolo Borsellino Essendo Stato

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In questo “romanzo di verità”, Ruggero Cappuccio ricostruisce una grammatica dei sentimenti civili, un codice storico e linguistico della società siciliana ed italiana contemporanee, di cui si fa consapevole relatore ed involontario eroe Paolo Borsellino.

La vita esemplare del giudice è ricostruita à rebours, a partire dal momento della morte e ciò è coerente con l’impianto del testo che sembra incunearsi dentro il concetto di ossimoro.

Viene da chiedersi spesso, infatti, scorrendo la narrazione di movimento in movimento, perché di continuo i silenzi scoppino, l’incoscienza diventi la forma più alta di coscienza, i faccendieri siano talmente contaminati da ritenersi innocenti, ed ancora ogni sorriso sia malinconico o, per dirla con Tomasi di Lampedusa, tutto cambia perché tutto resti uguale.

La spiegazione arriva fulminante nel centro del racconto: dell’apparente contraddizione di cui il dettato si alimenta, si pasce in realtà il nostro paese, in cui i giudici migliori sono minacciati da provvedimenti del Csm, dove è lo Stato a condannare a morte un uomo di Stato, dove tutto un sistema vuole che il medico curi, ma mai guarisca la piaga infetta della criminalità.

Eppure in Essendo Stato c’è una presenza-ombra, occulta eppure intensissima, che mi pare trascendere l’immediato contingente e potersi rappresentare nello spirito di Sicilia, lo spirito di una terra che distrae dalla morte e regala la libertà di morire, e che si esprime con una lingua ancestrale e crittografata, in cui le parole intendono spesso l’opposto di quello che dicono, quasi a celarsi all’orecchio di un invasore.

Lo capisce anche il lettore più distratto quando, ricordando l’evento solo apparentemente banale di una partita di pallone da ragazzino, Borsellino definisce sé stesso e Giovanni Falcone, sudati ed impolverati in un campetto sul far della sera, gli sconfitti vittoriosi di piazza Magione. L’espressione tornerà nel libro per definire l’azione investigativa di Paolo e Giovanni, ancora una volta vittoriosi, se solo il sistema ne avesse condiviso l’etica e le regole, ma ben presto divenuti consapevoli che la partita la governa chi possiede il pallone, non chi meglio pone in essere lo schema di gioco.

Così, inesorabilmente, Paolo e Giovanni si avviano a soccombere, in questo spazio sovvertito ed insidioso, per poi oniricamente ritrovarsi fuori dal nostro reo tempo, in un’Ade contemporaneo rappresentato dal palazzo dei defunti vivi, in cui Borsellino passa in rassegna uomini e donne di Stato uccisi non perché la partita finì, ma perché il pallone non era il loro.

Nella realtà della parola che non rivela, ma nasconde, di questo libro ci resterà a lungo l’impressione di un Borsellino titanico, appassionato studioso di linguaggi, uomo che ha provato a farsi interprete delle lingue ermetiche degli imputati trasformando le loro allusioni in confessioni, il loro linguaggio magro, implicito ed allusivo in un codice comune e condiviso. Un giudice che segnò.

Ma purtroppo, per lui e per noi, la partita non finì.

 

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